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Sharing, green, gig, digital, purché sia economy

Sharing economy, green economy, gig economy sono tra le parole chiave per descrivere l’economia di questo ultimo decennio, soprattutto in America e Nord Europa. Il percorso del settore è in salita, anche se il potenziale, a giudicare dai dati sul fatturato raccolti Price Waterhouse Cooper (PwC), è elevato ed è destinato a salire fino a 335 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Cinque i settori chiave: finanza peer-to-peer (+63%), online staffing (37%), car-sharing (+25%), streaming di musica e video (+17%), ospitalità (+31%).

La sharing economy è un settore emblematico del modo in cui le nuove tecnologie, in particolare il Web, cambino abitudini e stili di vita. Oggi pensare un servizio vuol dire: fare impresa. Tra gli esempi di maggior successo c’è Uber, che muove una flotta di autisti senza possedere nemmeno un’auto e Airbnb che dà accesso in tutto il mondo ad alloggi privati compresi gli igloo.

In Italia, secondo una ricerca Mosaicon, le piattaforme di sharing economy sono circa 111, per un fatturato di 1,5 milioni di euro. Un business emergente, difficilmente misurabile, ma di un’importanza tale da produrre effetti concreti sia sul fronte normativo sia su quello dei modelli di business. La concorrenza sleale è il pericolo più grande, come nel caso del servizio Uber People, messo sotto accusa di recente dalla categoria dei taxisti. Questo servizio permette a chiunque abbia un’automobile e la patente di fare il taxi. In Italia il servizio è stato al centro di una lunga battaglia in tribunale ed è stato dichiarato illegale e, quindi, sospeso. In attesa delle risposte legislative, vediamo quali sono attualmente i servizi disponibili in Italia.

Blablacar (ridesharing – www.blablacar.it/): la classica piattaforma di condivisione del tragitto in automobile per ammortizzare le spese, fondata nel 2006 in Francia, oggi vanta una community di 20 milioni di iscritti in 19 paesi. Una realtà simile è la start-up italiana Gogobus, un social bus-sharing (www.gogobus.it) per organizzare tragitti lunghi. Tra gli esempi di successo, tutto italiano, c’è Enjoy (https://enjoy.eni.com) della Eni, che offre, attraverso un app, un sistema di condivisione auto e scooter, molto apprezzato a giudicare dal numero di utenti attivi: 350mila (di cui 200mila solo a Milano) in meno di due anni. Sempre in ambito start up innovative, Mercury by Bike (www.mercurybybike.com), un’azienda che offre un servizio di consegne in bicicletta a Torino e dintorni con un interessante modello di business, che punta sul B2P (Business-to-persone): i clienti non sono semplici organizzazioni (B2B) oppure una moltitudine di clienti (B2C), ma singole Persone con singole aspettative ed esigenze: cittadini, imprese e PA. MBB offre un’app in dotazione del messenger e scaricabile dall’utente, che consente la firma digitale, la garanzia della consegna e la possibilità da parte del cliente di esprimere una valutazione del servizio.L’idea si ispira a più modelli: alla green economy del Nord Europa, alla sharing e gig economy americana.

economy

Tra le nuove frontiere della sharing economy ci sono gli “home restaurant”, cene a casa propria aperte al pubblico grazie alla pubblicazione dell’evento su social network o piattaforma dedicata, ad esempio Gnammo, Foodora, etc.

In questo quadro di digital trasformation, rimangono aperte molte questioni, una su tutte quelle legata all’impatto sul mondo del lavoro. L’esempio dirompente è Amazon Flex con il lavoro on demand, su cui il dibattito è accesso a livello internazionale con particolare attenzione alla gig economy: il modello economico in cui non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, con contratto a tempo indeterminato) ma si lavora on demand, cioè solo quando c’è richiesta per i propri servizi e prodotti. Domanda e offerta vengono gestite online attraverso piattaforme e app dedicate.

Il mercato crea possibilità e cambiamenti sociali importanti, ma le istituzioni, e non solo le organizzazioni pubbliche, ma anche le grandi aziende sono messe in difficoltà da questi modelli disruptors snelli e rapidi, e appaiono inadeguate a stare dentro la “terza era digitale”.

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